Il servizio pubblicato il 25.11.2008 su Repubblica - di Giampaolo Visetti |
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25.11.2008 - Repubblica - La Bancarotta della Basilicata |
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La Regione chiusa con un fax |
Ferrandina. La remota Baviera pubblica del Sud chiude con un fax. I manager delle multinazionali, in Valbasento, da mesi non vengono più. Comunicano. Poche righe, inviate da qualche ufficio lontano, per spiegare che la crisi del mercato Usa, che il crollo delle Borse, che il calo dei fondi pensione. Che la Cina e che l’India, eccetera. Pochi minuti, insomma, per abbassare i basculanti e appiccicare sul cancello l’avviso agli operai: "Da oggi a casa".
Il cuore della nuova recessione italiana, che silenziosamente respinge il Meridione nella povertà del dopoguerra, è sepolto in Basilicata, da qualche parte, tra Ferrandina e Pisticci. Il "polo della chimica", voluto da Mattei e liquidato da Fanfani, è un deserto di capannoni pericolanti. Sconfinati parcheggi vuoti. Piazzali invasi da erbe seccate. Campi da tennis coperti da muschi e con la rete sfasciata tra i gelsi. Ciminiere spente. I vetri rotti rivelano stabilimenti fermi. Pochi custodi del nulla, abbandonati qui come cani, rossi e rabbiosi per il dolore e per la nostalgia dei loro olivi soffocati, minacciano chiunque si avvicini. Sulle colline di terra smossa sono appoggiati, quasi fossero concime, sacchi bianchi di amianto. |
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Tra le fabbriche, riconvertite nel tempo alla meccanica, o a qualsiasi lavorazione avvelenata, si nascondono le case incompiute per i dirigenti mai trasferiti. Le occupano famiglie operaie, cassintegrati decennali, neo disoccupati, giovani sposi precari. Si vergognano di vivere su al paese antico.
Con "ottocento euri" al mese abitano le stanze di un fallimento, giù nel villaggio nuovo. Sotto le finestre, rivoli aromatici di trielina confluiscono nel letto prosciugato del Basento. I maschi, troppo vecchi per rifare la valigia, sperano che sotto il cimitero dell’ industria assistita si celi la necropoli di una bonifica eterna. Si consegnano all’ inquinamento, condanna e salvezza estreme, ostili ai comitati che dopo anni denunciano la morte di centinaia di colleghi intossicati.
Tagliati, in pochi mesi, altri 1300 posti di lavoro. Nessuno si incatena ai macchinari, come un tempo, occupa strade dove non passa che qualche trattore, o fa lo sciopero della fame. Contro chi, se un padrone ignoto si fa chiamare globalizzazione? Michele Sirago, appena licenziato, mostra un passo di Carlo Levi, confinato da Mussolini pochi calanchi più in là: «Nessuno ha toccato questa terra se non come un conquistatore o un nemico o un visitatore incomprensivo. Le stagioni scorrono sulla fatica, oggi come tremila anni prima di Cristo: nessun messaggio umano o divino si è rivolto a questa povertà refrattaria». L’indicazione però, mezzo secolo dopo, è chiara. L’industria politica fondata sullo Stato, o aggrappata ai favori di Colombo, crolla.
La delocalizzazione straniera in Italia, chiude. La linea dell’ economia e della ricerca abbandona i meridioni e si concentra nei nord dell’ Occidente. Il lavoro operaio si trasferisce negli Orienti dell’ Europa e dell’ Asia. La Basilicata, simbolo della parodia clientelare dello sviluppo affidato a catastrofi e ricostruzioni, precipita nel vuoto della rinuncia alla propria vocazione. «Ci vorrebbe un terremoto ogni dieci anni - dice lo storico Raffaele Giuralongo - perché il Sud ormai produce solo il cemento delle opere pubbliche. La recessione, qui, è una sentenza senza appello: essere l’ impresentabile e irraggiungibile retrovia tossica della riconversione verde del Nord». Non se ne parla, nell’ ottimista tivù padanizzata. Ma nel Paese che inizia a fare i conti con la spietatezza dei propri errori, c’ è una terra dispersa già in caduta libera. La Basilicata, venduta come modello della modernizzazione meridionale, è la regione italiana dove negli ultimi due anni ha chiuso il maggior numero di imprese.
Detiene, in percentuale, il record dei posti di lavoro perduti. Segna l’esodo più massiccio di emigrati negli ultimi tre anni e il più drammatico crollo demografico del Sud. È l’unica regione dove sono negativi sia il saldo naturale sia quello migratorio. In pochi mesi hanno perduto il lavoro oltre 7 mila persone, strappando al Piemonte il primato dei giorni in cassa integrazione. In tre anni si è passati da un crescita del 3% ad un recessione dell’ 1%.
In nessun luogo l’indebitamento delle famiglie è esploso del 50%. Le imprese in crisi, da gennaio, sono 152, seimila i lavoratori in mobilità, ottomila i posti a rischio entro la primavera.
La Fiat di Melfi, campione europeo di produttività, ventila per il prossimo anno sei mesi di stop: novemila, con l’indotto, gli operai che intravedono lo spettro dell’ impossibilità di pagare il mutuo.
Eppure, questa, è la regione più industrializzata del Meridione, quella che ospita lo stabilimento automobilistico più importante, quella dove lo Stato ha effettuato il più grande investimento degli ultimi trent’anni. Naviga sul giacimento petrolifero di terra più ricco d’ Europa, vanta il bacino idrico più generoso del continente, la diga più imponente. Sette distretti industriali, grazie al sisma del 1980, ospitano i gioielli dell’ imprenditoria nazionale e straniera. Un tesoro di carburante, gas, acqua e motori, sfumato tra le mani di seicentomila abitanti rimasti poveri.
«La Basilicata - dice il sociologo Davide Bubbico - ospita solo filiali, terminal produttivi, catene di montaggio. Come il resto del Sud, non ha generato imprenditoria, un progetto economico interno. Si fabbricano voti per la politica, non beni per il mercato. Non ci sono teste. Per questo la somma esplosiva delle crisi spazza via le aziende con una velocità impressionante. Resta una massa di ricattabili depressi: vittime di un sistema incompatibile con il mondo ridisegnato dal tramonto di un’ epoca». |
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In nessun altro luogo, come in questo follemente sacrificato territorio contadino, si avverte oggi il senso di abbandono disperato che rioccupa le periferie del Paese. I quotidiani locali aprono ogni giorno con il bollettino dei fallimenti e dei processi contro i truffatori di contributi. Da quattro mesi, per un viadotto pericolante, l’ autostrada è interrotta prima di Potenza.
L’interporto, dopo vent’ anni di progetti, non si farà. Tramontato, dopo cinquant’ anni di dibattiti, anche l’ aeroporto. Trenitalia ha appena annunciato i tagli dei principali collegamento ferroviari. In molti paesi, nonostante la distribuzione pubblica di computer, non arrivano Adsl, segnale telefonico, metano.I negozi, il pomeriggio, aprono dopo le 17. Le case non si vendono più e nel capoluogo è scoppiata la "guerra del pane" contro i gruppi di acquisto popolare che lo distribuiscono per un euro al chilo.
«Se non fosse per oleodotti, acquedotti e vagoni di rifiuti - dice l’ economista Nino D’ Agostino - saremmo già isolati. Ci stiamo trasformando in una discarica-serbatoio, popolata da cassintegrati, vecchi, badanti rumene ed emigranti». Il "distretto del salotto", fuori Matera, è lo specchio dell’ ignorato choc dell’ economia meridionale. Tre aziende di divani imbottiti, fino a tre anni fa, offrivano lavoro a 14 mila persone ed esportavano in tutto il mondo. Una è fallita, due oscillano tra contributi, ammortizzatori sociali e delocalizzazioni. Restano 3 mila occupati, a casa per settimane. Stabilimenti e magazzini sono sbarrati.
«All’ inizio - dice Corrado Asquino, ex dipendente di un’ agenzia interinale - lottavamo con il sindacato per avere subito la liquidazione, invece della cassa integrazione. Uscivi dalla fabbrica e ti assumeva il laboratorio a fianco. In sei mesi sono spariti tutti». L’ abisso della smobilitazione affiora però nella zona industriale di Potenza. A Tito Scalo, da settembre, hanno chiuso le multinazionali più importanti. Tre nelle ultime quattro settimane. Americani e tedeschi se ne vanno: riportano il lavoro in patria, o nei Paesi dove la mano d’ opera costa meno e i sindacati non esistono. Centinaia di famiglie non arrivano più nemmeno alla seconda settimana.
Le donne, fuori dai supermercati, vengono fermate con la bistecca sfilata dal vassoio e nascosta nel fazzoletto dentro la borsetta. Rimane il veleno nei terreni, su cui tornano greggi a pascolare, il business miserabile delle bonifiche a pagamento. Il Comune ha vietato l’ uso dell’ acqua per dissetare bestie e campi. Sul cancello di un’ industria abbandonata, un cartello dice "se il destino è contro di noi, peggio per lui". Anche nella "Sinoro", metafora della rapace industrializzazione lucana, rimangono solo i custodi asserragliati.
È il più grande stabilimento cinese in Italia. Doveva trasformare l’ oro in gioielli. Vent’ anni di vita, venti milioni di euro pubblici scomparsi, tre fallimenti, tre nomi cambiati. Mai prodotto un orecchino, solo due corsi di formazione finanziati con 400 mila euro. Sei giorni fa, la grottesca richiesta italiana di risarcimento alla Cina. «Dobbiamo riconoscere - dice Antonio Mario Tamburro, rettore dell’ Università della Basilicata - che abbiamo sbagliato tutto. Non è un caso se questa regione e il Meridione si risolvono in un elenco di occasioni perdute. La recessione mondiale travolge prima i territori più fragili, dove l’ economia è una finzione. Invece di lamentarci dobbiamo riconoscere che il drenaggio del denaro pubblico non funziona più. E che la società del Sud implode per cinque ragioni: classe dirigente impreparata, industria nata vecchia, prodotti privi di innovazione, infrastrutture inesistenti, vocazione territoriale tradita». |
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Le conseguenze, con la frenata occidentale, sono drammatiche. Nove giovani laureati su dieci lasciano la Basilicata entro sei mesi. Quattro maschi attivi su dieci, negli ultimi tre anni, sono emigrati. Otto immigrati extracomunitari su dieci, spina dorsale di ciò che resta dell’ agricoltura, cambiano regione entro un anno. Una fuga senza precedenti, da una terra meravigliosa che si svuota nella distrazione assoluta del Paese. Nel Novecento se ne andavano poveri e analfabeti. Nel Duemila partono ricchi e laureati. Gli emigrati però, per la prima volta, trovano negli immigrati concorrenti più convenienti di loro.
Il fallimento si nasconde lontano dalla culla. La stessa corsa all’ energia, in Val d’ Agri, tradisce più il profilo di uno scippo, che l’ opportunità di un riscatto. Tra Viggiano e Sant’ Arcangelo scorre l’ 80% del petrolio italiano, oltre il 10% del fabbisogno nazionale. Le compagnie pagano localmente le royalties più basse del pianeta: 7%, contro il 50% di Paesi arabi e America del Sud. Poche centinaia i posti di lavoro, legati alla manutenzione delle condotte verso Taranto. Quantità di combustibile estratto e tassi di inquinamento sono affidati al monitoraggio degli stessi produttori. Regione e Comuni impiegano i proventi delle trivellazioni per tappare buchi e comperare consenso. La cassaforte delle risorse naturali italiane, che i paesani chiamano amaramente "Lucania saudita", consumata per riprodurre il sistema del ricatto ai miserabili.
«Milioni di euro - dice l’economista Pietro Simonetti - per sagre, lampioni, convegni e centri per il recupero dell’ arpa. Potremmo finanziare lo sviluppo, tagliare i costi locali dell’ energia, abbattere i tassi dei mutui, riconvertire le imprese, rifondare un modello economico capace di unire il Meridione attorno alle sue risorse secolari. La politica non ha ancora compreso la dimensione della crisi reale che ci investe: salva l’Alitalia, si rianima sulla Rai, e non vede che il Sud è sull’ orlo di una rabbiosa mobilitazione di massa». Anche Melfi, epicentro industriale tra Bari e Napoli, per la prima volta trema. Dieci settimane di cassa integrazione, nella Sata - Fiat di Lavello, tra luglio e Natale. I parcheggi riservati ai 5480 operai sono vuoti. Deserti i capannoni delle venti aziende dell’ indotto. I piazzali interni traboccano di auto da consegnare. I dipendenti, anche questa settimana, raccolgono olive e castagne, o pigiano l’uva. Nel bar del distributore di benzina si cerca di capire perché, se oggi fallisce una banca a New York, domani saltano gli stipendi a Venosa.
«Eravamo i giapponesi d’ Europa - dice Libera Russo, impiegata - un esempio di qualità. Ma se fatica il Nord, alle prese con i tagli europei, difficile che qualcuno salvi questo Sud». Un annunciato effetto a catena. Le imprese lucane, aperte per consumare i fondi pubblici, impiegano solo braccia. Sono qui perché anno ricevuto soldi, terra, uomini, sicurezza e assenza di diritti. La responsabilità, pur promessa, non è mai arrivata, come la ricerca e il portafoglio. «Il lavoro - dice Antonio Pepe, segretario regionale della Cgil - non si è trasformato in economia, l’industria non è diventata progetto. Per questo, ora che alla politica mancano i soldi per l’ assistenza, l’occupazione si estingue». La gente si era illusa di aver compiuto il salto nel consumo. |
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A garantirlo, marchi come Fiat, Barilla, Ferrero, Parmalat, Coca Cola, Panasonic, Natuzzi, Eni, Total, Shell, più le multinazionali della chimica e della meccanica mondiale. Un caso unico, a sud di Bologna. Invece, all’ improvviso, il crollo secco che ridona al "Texas italiano" la sua identità di mediterraneo Meridione. «Il rischio - dice il vescovo di Potenza Agostino Superbo in un’ assemblea di operai licenziati - è che una generazione senta perduta anche la propria dignità». Un appello estremo, subito ottimizzato in locale rissosità di partito. «Intanto - dice Anna Maria Dubla, presidente di "Ambiente e legalità" - i russi sono pronti a stoccare il gas nei pozzi esauriti della Valbasento e il governo federalista sfila alla Regione anche la competenza sulle concessioni petrolifere.
La Basilicata, presa per fame, non può più dire di no. Confonde il futuro, vende anche l’ultima terra, chiude le fabbriche e si prepara ad essere discarica e ciminiera. Solo i disperati possono morire silenziosamente tra i rifiuti, o intossicati: il destino del Sud, che il Paese prontamente riconsegna, svuotato, a se stesso». Pochi, si salvano. Qualche grande contadino, un pugno di magnifici artigiani, alcuni ineguagliabili pastori, non più di dieci vignaioli d’ eccezione, un gruppo di ragazzi e di donne, come la scrittrice Mariolina Venezia, che si ostinano a credere nella cultura e nella natura.
Fedele Agata, a 70 anni, a Ferrandina sta costruendo una sella di cuoio "per non perdere una capacità". Il figlio spreme la "maiatica nera" nell’ oleificio stretto tra le fabbriche fallite. Rino Botte, rientrato a Barile dopo una vita di gloria a Cremona, è ridisceso nelle cantine dell’ Aglianico. Non c’ è altro, oltre la "retorica dell’ impossibile", di mondiale. Botte invece fa, e se ci pensa si commuove, fino a piangere in pubblico.
Pochi esempi, pigri ed eterni, soli. E nessuno che accetti di ascoltare la drammatica lezione dei maestri semplici.
Giampaolo Visetti - La Repubblica - 25.11.2008
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I numeri della Basilicata |
590.000 Abitanti
700.000 Emigrati all’estero
196.000 Occupati
25% Persone senza occupazione
142.000 Non occupati
50,3% Tasso di occupazione
6.700 Cassintegrati nel 2008
4.000 Emigrati nel 2007
12.000 Immigrati Extracomunitari
15.000 Badanti straniere
9.000 Emigrati ultimi 5 anni
10.000 Posti di lavoro a rischio
70% Aumento cassa integrazione nel 2008
120% Stima aumento cassa integrazione nel 2009
152 Aziende in crisi
7.300 Posti di lavoro persi nell’ultimo anno
4% Crescita del PIL nel 1998
- 2,6% Crescita del PIL nel 2006
-1% Calo PIL nel 2008
13.500 Addetti distretto del salotto nel 2006
3.000 Addetti distretto del salotto nel 2008
62.000 Occupati nell’industria nel 2004
51.000 Occupati nell’industria nel 2008
1.300 Posti di lavoro persi in un anno in Valbasento
25% Imprese in perdita nel 2008
-40% Calo fatturato aziende ultimi 2 anni |
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