di Giuseppe Riccardi
Mi è stato chiesto di scrivere un breve ritratto di Raffaele Giura Longo ad appena qualche giorno di distanza dalla sua scomparsa. E’ estremamente difficile cercare di contenere la sua personalità in poche righe. E scrivere di lui, mi porta inevitabilmente a richiamare le circostanze per cui ho avuto la fortuna di conoscerlo. Voglio denunciare subito il mio debito di riconoscenza nei suoi confronti, gli ero molto affezionato e faccio ancora fatica a parlarne al passato.
Non voglio qui parlare dello studioso: della sua vasta, articolata e complessa produzione scientifica, è giusto che si occupi chi ha maggiori titoli e capacità di chi scrive. Sul punto voglio dire una sola cosa: per chiunque voglia occuparsi della storia di Matera e della Basilicata non è possibile prescindere dai suoi scritti.
Personalmente, ripeto, gli devo tantissimo, e tracciarne il profilo mi permette di saldare, solo parzialmente, quanto gli devo. Non ho scritto molto, ma di qualunque cosa mi sia occupato, senza il suo placet non scrivevo niente, lui era sempre il garante dell’ortodossia. L’ho citato spessissimo, e non è davvero il caso di precisare che la cosa serviva a me, non certo a lui. Ne avevo bisogno io, come il nano che si mette sulle spalle del gigante per guardare più lontano, nel caso specifico come il nano che si nasconde dietro il gigante.
E’ difficile dividere il piano umano da quello del docente in senso stretto, non foss’altro perché la sua autentica passione per l’insegnamento e il sincero attaccamento ai suoi studenti lo portavano regolarmente a ricevere anche a casa sua e a qualsiasi ora della giornata. Molte volte sono stato nel suo studio affacciato sui sassi e sempre si iniziava da questo o quel documento che volevo mostrargli e si finiva per parlare degli argomenti più diversi. Anche la sua casa parlava di lui e del suo credo politico: guardando sulle pareti, tra le tante librerie, si riconoscevano, tra gli altri, Enrico Berlinguer, una riproduzione del quarto stato di Pellizza e un ritratto di Raffaele Sarra, il nonno di cui portava il nome.
Quando si ritirò dall’insegnamento continuò a seguirmi, e i nostri rapporti, sempre cordiali, divennero meno professionali, più décontractés. Intendiamoci, gli ho sempre dato del lei, a dir la verità, all’inizio gli ho dato anche del voi. Per chi è nato in una famiglia in cui il padre dava del voi al proprio genitore la cosa viene abbastanza naturale quando si vuol manifestare rispetto. Conservo, tra le sue mail, una in cui mi richiamava, scherzosamente e su sollecitazione di un altro docente, a non usare il voi, sconveniente, specie in ambiente accademico.
Ma quello che qui mi preme maggiormente ricordare è il rigore morale, l’estrema umanità del professore, un uomo libero nel senso più vero del termine. Che si parlasse di cronaca o di storia, l’onestà intellettuale e il rigore dello studioso gli davano una singolare capacità di leggere i fenomeni che interessavano il tessuto sociale.
Tutto ciò, unito al grande attaccamento alla sua terra, lo portava a distinguere tra l’interesse del partito e quello più generale della sua comunità. E ad andare, se necessario, oltre le logiche di appartenenza politica qualora questi interessi non coincidessero. Provava grande piacere a parlare con chiunque, specie i più umili, ad intrattenersi con i giovani, e soffriva nel vedere mortificato il grande potenziale della sua città. Mai aveva perduto il contatto con la gente, il polso della sua città.
Soffriva nel vedere la sua terra privata e impoverita delle tante intelligenze che erano costrette a emigrare, un’emigrazione altrettanto dolorosa della passata emigrazione di braccia. Questa più recente emigrazione, meno massiccia, certo, della precedente, portava più danni al territorio, irrimediabilmente impoverito di tante preziose risorse intellettuali.
Il suo rapporto con la città era fortissimo, come lo può essere quello di qualcuno che, mentre passeggia, si guarda intorno e gli ritornano alla mente vicende storiche, certo, ma anche personali. Che ci incontrassimo a Matera, a Bari o a Parigi, dove ho continuato i miei studi e dove lui veniva piuttosto spesso, si finiva sempre per parlare dei problemi della sua città. Ha sempre servito la sua comunità nei molteplici ruoli che ha rivestito nel corso della sua vita, piena di successi e soddisfazioni.
Ho avuto la fortuna di apprezzare il professore e lo studioso e, in tempi recenti, ho sostenuto con entusiasmo anche la sua candidatura alle scorse comunali. Intendiamoci, non aveva mai lasciato la politica attiva, nel senso più autentico della parola, lo spirito di servizio alla propria comunità che non ha bisogno di cariche pubbliche. Molti hanno ricordato il suo ruolo nella legge sul risanamento dei Sassi, ma io voglio qui ricordare, a titolo di esempio, il CUM, bellissimo progetto per cui, con Mario Manfredi, si era molto speso, progetto poi affossato dalla criminale miopia della nostra classe politica.
Voglio spendere qualche parola su questo solo apparente insuccesso perché, credo, mi permette di meglio descrivere il suo pensiero politico. Il centro sinistra, ricandidandosi alla guida della città, non era in grado di garantire la necessaria discontinuità nei metodi di governo, prima ancora che nelle candidature alla guida della città.
Da troppo tempo le sue denuncie dei comitati di affari, del carrierismo, del clientelismo dilagante - che, in campagna elettorale, aveva reso plasticamente, da raffinato intellettuale quale era, con l’estremamente calzante metafora della processionaria - formalmente riverite, erano in effetti inascoltate. La passione per la sua terra lo portava ad essere molto critico sulla situazione politica locale e sono certo che il malessere che ciò gli comportava sia stata la causa prima della sua scelta di candidarsi.
La sua rigorosa integrità, la sua tempra morale erano per tutti un esempio, e, per quanti come me hanno sostenuto l’iniziativa, una garanzia sufficiente della bontà della stessa. Certo, vedeva come un pericolo reale che Matera andasse a destra, ma non si nascondeva affatto il bilancio di tanti anni di amministrazione di centro sinistra, molte centinaia di migliaia di metri cubi di cemento, approvate dagli stessi personaggi che, amministratori irresponsabili solo ieri, ci danno lezione oggi.
Una battaglia di testimonianza, romantica, anche persa in partenza, meritava e merita ugualmente di essere combattuta. Era un progetto politico, non meramente elettorale, per cui i suoi frutti si devono valutare sul lungo periodo e non in termini di voti ottenuti. L’aver posto al centro del dibattito tanti temi che lui aveva a cuore già da solo valeva e ripagava l’impegno.
Quando, appena venuti a conoscenza della candidatura, con alcuni amici, ci eravamo offerti di sostenerlo, pensavamo di dare una mano avvicinando giovani, organizzando l’attacchinaggio, lo speakeraggio, né più né meno, tutte cose che pure abbiamo fatto e con entusiasmo. Ma lui ci teneva informati di ogni passo, e ci lusingava il fatto stesso che ci consultasse e chiedesse la nostra opinione su ogni iniziativa da intraprendersi. Inesperti, pensavamo di essere più credibili non chiedendo voti per noi, ma per la lista. Ritrovandoci a salutare il professore per l’ultima volta abbiamo ricordato quell’esperienza unica e irripetibile, ironizzando sui voti da noi presi, meno di cinquanta in cinque. Credevamo e crediamo che tra noi ci fossero persone più degne di essere votate, tutto qui.
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