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CULTURA
20/11/2006  Lascia un commento
Un’alternativa agli inceneritori: I sistemi meccanico biologici
In Italia gli inceneritori vengono chiamati "termovalorizzatori"

Il professor Federico Valerio, direttore del Dipartimento di Chimica Ambientale dell’Istituto Nazionale per la Ricerca sul Cancro di Genova, spiega perchè sulla questione rifiuti la miglior tecnica per il residuo non riciclabile sia il Trattamento Meccanico Biologico "a freddo" cioè senza combustione.

Il professori Soyez K. e Plickert S., dell’Università di Potsdam (Germania), sembrano non aver dubbi: i trattamenti Meccanico Biologici (MBT) sono tecnologie alternative all’incenerimento dei rifiuti. Questo è quanto affermato nel loro articolo, pubblicato nel 2003, sullo stato dell’arte dei sistemi di pretrattamento meccanico-biologici e sulle potenzialità dei trattamenti biologici dei rifiuti.

E i numeri sembrano dare loro ragione. Il Ministero dell’ambiente tedesco riporta che nel 2005, in Germania, erano operativi 64 impianti MBT con una capacità complessiva di trattamento pari a 6,1 milioni di tonnellate all’anno . Per fare un confronto, la stessa fonte riporta che in Germania, nello stesso anno, erano operativi 73 inceneritori, con una capacità complessiva di 17,8 milioni di tonnellate.

Quindi, se è vero che attualmente la Germania incenerisce più rifiuti di quanti ne bio-stabilizza con sistemi MBT, è anche vero che nel 2001 gli impianti MBT operanti in Germania erano solo 2, con una capacità di trattamento di 1 milione di tonnellate. Il crescente interesse sui sistemi MBT si coglie anche dal crescente numero di pubblicazioni tecniche e scientifiche su questo argomento. Ad esempio, la società di consulenza britannica Juniper ha effettuato un approfondito studio sugli impianti MBT operativi nel mondo e nel 2005 individuava, a livello mondiale, 27 aziende impegnate nella realizzazione di impianti MBT.
I paesi di appartenenza di queste aziende sono i più vari: Spagna, Turchia, Australia, Israele, Germania, Olanda, Canada, Italia. Queste 27 aziende, al momento dello studio, avevano realizzato 80 impianti MBT, con una potenzialità complessiva di 8,5 milioni di tonnellate/anno e nei loro programmi c’erano altri 43 impianti da realizzare entro il 2006 che porteranno la capacità di trattamento rifiuti, con i loro 143 impianti MBT, a 13 milioni di tonnellate.

Per dare una dimensione a questo fenomeno citiamo la stessa Juniper che nel 2000, censiva in Europa 269 inceneritori con una capacità di trattamento di 47,3 milioni di tonnellate. Il crescente interesse per i sistemi di trattamento meccanico biologico dei rifiuti, che sta coinvolgendo anche Inghilterra, Stati Uniti, Cina, deriva dall’alta flessibilità di questi impianti, dai tempi di realizzazione estremamente brevi (18-24 mesi), dai costi di investimento e gestione assolutamente competitivi, rispetto alla "termovalorizzazione".

Competitivo rispetto alla "termovalorizzazione" è anche l’impatto ambientale sanitario, intrinsecamente basso negli impianti biologici a “freddo”. La flessibilità riguarda in particolare la possibilità di ottenere diversi risultati, a seconda delle esigenze e della natura degli scarti: produzione di compost di qualità per uso agronomico, inertizzazione della frazione putrescibile e stabilizzazione compatibile con la messa a discarica in sicurezza, produzione di biogas da usare per produrre elettricità e calore o da immettere nella rete di distribuzione del gas, produzione di combustibile da rifiuto utilizzabile in cementifici e centrali termiche, al posto di carbone e coke di petrolio.

Un ulteriore vantaggio delle tecniche di trattamento biologico è che nei rifiuti urbani, circa il 60% degli scarti tal quali è biodegradabile. Questa frazione è trattabile con le tecniche MBT che, con tecniche aerobiche (insufflazione d’aria) eliminano la frazione putrescibile, ossidata ad anidride carbonica e acqua. Il trattamento anaerobico (in assenza di aria) provvede, se necessario, a trasformare in biogas (in prevalenza metano e anidride carbonica ) la frazione cellulosica più resistente alla bio ossidazione.

La frazione non biodegradabile dei rifiuti urbani è composta da metalli, vetro, ceramiche, recuperabili con sistemi meccanici e magnetici dopo la biostabilizzazione e da circa il 10-15 % in peso di plastiche, anch’esse recuperabili, anche se di qualità probabilmente incompatibile con il riciclo. Ovviamente è solo su questa frazione residuale che è il caso di fare valutazioni per un possibile recupero energetico, se non si è proceduto alla separazione e alla raccolta differenziata delle plastiche al momento dell’uso.

Pertanto dopo biostabilizzazione, separati con sistemi meccanici e magnetici vetri e metalli , inviati al riuso e al riciclo, abbiamo da decidere che cosa facciamo di quel poco di plastica avanzata alla raccolta differenziata e della frazione organica inertizzata residuale, la cui composizione chimica è prevalentemente simile a quella del compost.

Per brevità accenniamo ai risultati di studi in merito alla messa a discarica degli scarti della biostabilizzazione e alla produzione sostenibile di biogas. Un problema che è stato sollevato per la messa a discarica del biostabilizzato è che questo può avere un potere calorifico che, in base al Decreto n° 36 del 13 gennaio 2003 lo rende incompatibile con la messa a discarica e quindi costringe al suo incenerimento.
Il citato Decreto che recepisce la direttiva 1999/31 si pone l’obiettivo di ridurre il più possibile le ripercussioni negative sull’ambiente delle discariche e "non ammette a discarica rifiuti con Potere Calorifico Inferiore (PCI) maggiore di 13.000 chilo joule/ chilogrammo, a partire dal 1/1/2007."

Peraltro lo stesso decreto, all’articolo 7, afferma che” i rifiuti possono essere collocati in discarica solo dopo trattamento” e, è indubbio, che i sistemi MBT siano trattamenti tutt’altro che banali che modificano profondamente la composizione chimica, microbiologica e tossicologica del rifiuto urbano tal quale.

Ma non è necessario imbarcarsi in lunghi e costosi contenziosi con le pubbliche amministrazioni, che sembrano propense a favorire i gestori di inceneritori facendo bruciare loro tutto il bruciabile. Un recente studio tedesco (M. Kuehle-Weidermeier. Landifilling of mechanically-biologically preatreated municipal solid waste) ha dimostrato che per abbassare il potere calorifico del prodotto residuale alla biostabilizzazione, basta setacciarlo con setacci da 60 millimetri.

Tutto quello che passa sotto al setaccio, pari al 91 % della massa trattata, ha un potere calorifico che non raggiunge le 6.000 chilo-joule/chilo e quindi può essere messo tranquillamente a discarica nel pieno rispetto della legge. La frazione che resta sopra il setaccio rappresenta circa il 10% in peso della massa biostabilizzata che, a sua volta, grazie alla bio ossidazione e alla separazione degli inerti si è ridotta di circa il 40% rispetto alla massa iniziale del rifiuto tal quale, prima del trattamento MBT.

In altre parole, da ogni tonnellata di rifiuti tal quale, avanzano circa 60 chili di scarti ad alto potere calorifico. Il potere calorifico del sopra vaglio è di 13.700 kj/kg, quindi vantaggioso dal punto di visto energetico, ma, vista la quantità di “combustibile” in gioco ci chiediamo se ci sarà qualcuno disponibile ad accollarsi le spese del loro trasporto e incenerimento, specialmente se, come ci si augura, l’Italia abolirà l’incentivo dei certificati verdi alla elettricità prodotta bruciando rifiuti in quanto equiparati, per legge, a fonte energetica rinnovabile. A riguardo, sottolineamo il fatto che l’alto potere calorifico della frazione più grossolana del biostabilizzato è in prevalenza attribuibile alla concentrazione, in questa frazione, di plastica , in gran parte sotto forma di fogli e pellicole, e sarà dura sostenere che questa frazione, se usata come CDR o negli inceneritori possa essere considerata fonte di energia rinnovabile.

Nei trattamenti biologici aerobici la frazione cellulosica (carta, cartone, legno) è poco degradata. Per biodegradare questo tipo di scarto è possibile ricorrere alla fermentazione anaerobica che ha il vantaggio di trasformare questi scarti in biogas, una miscela di metano e anidride carbonica che, opportunamente trattata può essere utilizzata a scopo energetico. Oggi in Europa si contano circa 3000 impianti di biogas, in gran parte collegati al recupero e all’utilizzo del biogas prodotto dalle discariche.Se nelle discariche la produzione di biogas è un evento collaterale non controllato, molto meglio gestire lo stesso processo in impianti dedicati.Con questa tecnica biologica da una tonnellata di rifiuto urbano, si possono produrre, dopo opportune purificazioni del biogas, da 75 a 90 metri cubi di metano, utilizzabili a scopi energetici, in particolare per la produzione combinata di elettricità e acqua calda per usi industriali o teleriscaldamento.

Quando non è conveniente realizzare il teleriscaldamento per condizioni climatiche (inverni miti), lontananza della possibile utilizzazione dal punto di produzione, ostacoli urbanistici a realizzare la rete di distribuzione dell’acqua calda, la produzione di biogas offre un’altra interessante possibilità: dopo opportuna purificazione, inserire il biogas direttamente nella rete di distribuzione del gas di città. L’immissione del biogas trattato nella rete di distribuzione è tecnicamente possibile e già realizzato in Danimarca, Svezia, Svizzera, Olanda. Al momento, l’unico ostacolo al diffondersi di questa pratica è l’elevato costo di purificazione del gas.

Una soluzione ci sarebbe! Attribuire gli incentivi dei certificati verdi anche al biogas trattato ed immesso in rete, in proporzione all’energia non rinnovabile che l’uso diretto del biogas ci permetterebbe di risparmiare. E’ vero, l’uso del biogas al posto del metano per bollire la pasta e per riscaldare le case non equivale a produrre energia elettrica, ma la fantasia italica che è riuscita ad equiparare i rifiuti a fonti di energia rinnovabile potrebbe anche trovare una soluzione a questo piccolo problema formale.

E questo è un esplicito invito alle attuali forze di governo, in particolare i Verdi e i DS, che dirigono i ministeri competenti e dai quali ci aspettiamo qualche cosa di intelligente. Peraltro, in questo caso, tutto dovrebbe essere più facile e formalmente corretto. Il biogas è una vera fonte di energia rinnovabile e calore ed energia elettrica rappresentano forme diverse di energia che, non a caso, si possono misurare con le stesse unità di misura. Inoltre per riscaldare l’acqua della pasta e quella della doccia è molto meglio, dal punto di vista ambientale e del risparmio energetico, bruciare direttamente il metano piuttosto che usare lo stesso metano in un generatore a turbogas per produrre elettricità che, a sua volta, sarà utilizzata per riscaldare la stessa acqua. E, ne siamo certi, gli Italiani, sarebbero più contenti che i loro soldi, trasformati in certificati verdi, siano utilizzati per incentivare le tecniche di trattamento biologico cosidette "a freddo" piuttosto che i termovalorizzatori.

Federico Valerio
Direttore dl Dipartimento di Chimica Ambientale dell’istituto Nazionale per la Ricerca sul Cancro-Genova 



Approfondimenti

Federico Valerio
http://www.istge.it/ricerca/servizi/ch_am/valerio.htm 

Siti dove la stessa informazione è stata pubblicata
http://diamanteonline.altervista.org/index.php?option=com_content&task=view&id=52

http://www.reggionelweb.it/articolo.asp?file=a186fedvalerio.xml 

Articoli e informazioni connesse
http://www.dsa.unipr.it/giavelli/RSU/federico_valerio.html 

http://soccorsambiente.blog.tiscali.it/nv2478957/ 

http://beppegrillo.meetup.com/164/boards/view/viewthread?thread=1777092&pager.offset=30
 
 
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